I ragazzi mi chiedono spesso: "Come si scrive una storia?"
Oppure: "Come si scrive un libro?".
E ogni volta rispondo... che non è facile rispondere.
Ogni scrittore ha un suo metodo e un suo modo di lavorare. Io posso rispondere per me, ma non è detto che la mia ricetta valga per tutti. Comunque provo a raccontarvi come mi regolo quando decido di scrivere un libro.
Il personaggio
Prima di scrivere un libro, io devo aver chiaro nella testa qual è il personaggio principale intorno al quale ruotano le vicende che mi accingo a raccontare. Questo personaggio per me non è soltanto una finzione romanzesca. Insomma non è solo una costruzione di carta, una creatura inventata e basta. Io lo sento, devo sentirlo, come una persona che vive, agisce, prova sentimenti e emozioni. Conosco le idee che ha, i pensieri che attraversano la sua mente, le ansie e le gioie che prova. Ma mi sembra anche di avergli parlato, di conoscerne la voce e di essere stato con lui nei posti che mi sono più cari. Con lui condivido ricordi ed esperienze, e, in un certo senso, è come se fossimo cresciuti insieme. Io so tutto del mio personaggio. O meglio, mi sforzo di sapere tutto. Solo così potrò parlare di lui come se esistesse davvero e lo conoscessi da sempre. Quando agisce nel libro, io provo dentro di me tutto quello che prova lui. Se non sperimentassi davvero i sentimenti e le emozioni che vive, i dubbi che ha, gli entusiasmi che lo trascinano, lascerei freddi e indifferenti i miei lettori. Dunque il primo segreto per scrivere una storia o un libro efficace è credere profondamente nel personaggio che si inventa. In qualche modo quel personaggio devi essere tu, gli devi prestare la tua vita e devi farti prestare la sua. Ecco perché è importante scrivere soprattutto di ciò che sentiamo vicino alla nostra sensibilità, alla nostra esperienza, all'idea che ci facciamo del mondo e della vita. Ovviamente questo vale anche per i personaggi secondari, che devono essere veri anche loro e non delle semplici macchiette di contorno. Quando ho scritto i diari di Jessica e i libri di Valentina, mi sono preoccupato di dare forza di verità alla maestra e alla sorella di Jessica, alla mamma e alla zia Elsa di Valentina, tanto per fare un esempio. Ogni personaggio, anche se compare solo in una scena, dovrebbe restare nella memoria del lettore perché ha fatto o ha detto qualcosa che lo caratterizza e lo distingue da tutti gli altri.
Come si inventa un personaggio
La nostra vita è fatta di mille incontri. Cominciamo dalle persone con le quali viviamo in casa, continuiamo con quelle che incontriamo a scuola, in strada, nei luoghi che visitiamo per poche ore o dove soggiorniamo più a lungo. Con queste persone abbiamo delle relazioni: brevi o lunghe, tranquille o tempestose, piacevoli o irritanti. I nostri sentimenti coincidono con i loro oppure no. Le nostre idee sono simili oppure divergono completamente. Ci è facile andare d'accordo, oppure non riusciamo proprio a intenderci. Non siamo mai indifferenti a ciò che ci accade: anche se una situazione o una persona ci colpiscono di più, e altre meno. Ecco perché ,per inventare dei personaggi, a volte è sufficiente guardarsi intorno, "saccheggiare" i propri ricordi, ripensare le proprie esperienze. Potete farlo anche voi. Provate a raccontare un episodio che vi ha visti coinvolti con un compagno a scuola, in palestra, o in qualsiasi altro luogo in cui è nato un rapporto bello o complicato. Provate a ricordare e a raccontare soprattutto le emozioni che l'altro ha suscitato in voi con le sue parole o il suo comportamento. Cercate di entrare nella sua pelle. Se riuscite a farlo, quel personaggio vivrà davvero attraverso le vostre parole e riuscirà a parlare anche a coloro che non l'hanno conosciuto. E' un modo per cominciare a fare letteratura, uno dei tanti. Con me ha funzionato. Ecco perché io sono diventato molto bravo ad osservare gli altri, ad ascoltarli, a non farmi sfuggire un gesto o una parola di chi sfiora la mia vita.
Il diario
Ma prima di raccontare gli altri, dovete imparare a raccontare voi stessi. E' una condizione quasi assoluta per diventare scrittori. Cosa vuol dire raccontare se stessi? Vuol dire imparare a conoscersi profondamente e a dire con parole chi siamo, cosa vogliamo, qual è il cammino che stiamo facendo, quali sono le mete che ci proponiamo di raggiungere, quali sono i sogni che coltiviamo e come e con chi vorremmo realizzarli. Non è facile dire a noi stessi che cosa ci spinge ad agire, che cosa si scatena dentro di noi quando siamo tristi o felici, quando siamo rabbiosi o sereni, quando odiamo o siamo innamorati. Eppure dobbiamo sforzarci di farlo se vogliamo essere capaci di raccontare le emozioni e la vita degli altri. Non dobbiamo avere paura di scavare dentro di noi. Alla fine staremo meglio perché avremo avuto il coraggio di dire a noi stessi le verità che ci riguardano. In più occasioni ho detto che scrivere salva la vita. E non era solo una frase ad effetto. L'ho sperimentato su di me nel corso degli anni, sin da quando ero ragazzo. Come? Tenendo una specie di diario, che io chiamavo brogliaccio . Di solito si pensa che il diario sia una faccenda di bambine e di ragazze. Ma è sbagliato crederlo. Il diario è uno strumento che tutti i ragazzi dovrebbero essere incoraggiati a usare per mantenere con più profitto la rotta della propria navigazione adolescenziale. La scrittura del diario è una scrittura assolutamente gratuita. Non si scrive per qualcuno né su comando di qualcuno. Si scrive per se stessi quando si ha voglia di farlo. Inoltre si scrive cercando di essere il più possibile sinceri. E si è più sicuri di non barare quando si sa che i propri rendiconti resteranno dominio della nostra intimità. Insomma quando si sa che nessuno andrà a ficcare il naso nelle nostre pagine e a giudicare le nostre parole. Il diario assolve perciò una doppia funzione. Da un lato diventa uno specchio di noi stessi e ci permette di conoscere più a fondo la nostra vera personalità. Dall'altro diventa un prezioso esercizio di scrittura : oggi per raccontarci, domani per creare. Anche in questo caso, non è detto che funzioni con tutti. Ma si può almeno provarci.
Come ho cominciato a praticare la scrittura da ragazzo
Quando tornai in Italia da Parigi, ero carico di esperienze, ma non avrei saputo raccontarle per iscritto perché il mio italiano era povero e mi mancavano le parole per dire com'ero cambiato. Imparare l'italiano, per me fu come imparare una seconda lingua. Dapprima mi sentii spaesato e mortificato. Soprattutto a scuola, dove non ero in grado di scrivere un testo decente e corretto. I famigerati "temi" erano per me una vera ossessione. Non sapevo mai cosa scrivere e come scrivere. Perciò ricordo che ricorrevo per aiuto a una signora vicina di casa, che mi dettava parola per parola il testo che il giorno dopo avrei portato a scuola dalla professoressa. Mi vergognavo, ma non ero rassegnato. E così cominciai a guardarmi intorno e a prestare attenzione alle parole degli altri. Un giorno scoprii in una bancarella un libro mezzo squinternato. Forse era arrivato lì dallo sgombero di un solaio o di una cantina, chissà. Si intitolava Il richiamo della foresta e l'autore che lo aveva scritto era Jack London. Lessi il libro a fatica, ma con grande piacere. E poco dopo mi capitò fra le mani Pinocchio, del quale nessuno mi aveva mai parlato nella mia infanzia. Scoprii così che leggere poteva riservare delle grandi sorprese, suscitare grandi emozioni, aprire degli orizzonti impensabili. Da allora non ho mai più smesso di leggere. Ma quello che più conta è che cominciai a desiderare anch'io di scrivere libri. Anch'io volevo suscitare nei lettori le gioie e gli entusiasmi che i libri degli altri suscitavano in me. Mi sembrava un sogno irrealizzabile. Ma decisi di coltivarlo con amore e passione. Ero quasi un analfabeta e avevo tanta strada da fare, lo sapevo. Ma non mi lasciai intimidire dall'impresa. Di colpo, mi colse una vera e propria febbre della scrittura. Cominciai a scrivere come un forsennato. Riempivo quaderni e quaderni e scrivevo di tutto: poesie, racconti, abbozzi di romanzi che interrompevo dopo pochi capitoli o poche pagine. Mi sembrava incredibile che riuscissi a tirare fuori di me frasi, pensieri, idee che mai avrei creduto di avere. Naturalmente mi aiutava molto leggere i libri degli altri, dove trovavo immagini, situazioni, ambienti che mi facevano sognare. Quasi subito cominciai a riflettere su me stesso. Chi ero? Cosa volevo? Cosa avevo fatto fino a quel momento? Cosa pensavo della mia vita, degli altri, del mondo in cui vivevo? Avevo tredici anni ed era l'età in cui le domande pullulano imperiose come l'acqua di una sorgente. Era anche l'età in cui cominciavo ad innamorarmi per davvero e sull'amore, i sentimenti, le emozioni riflettevo freneticamente. Ovviamente a scuola non ero più l'ultimo della classe. I miei temi cominciarono a diventare sempre più ricchi, complessi, dettagliati. Nessuno sapeva che a casa avevo una specie di laboratorio in cui mi provavo con ogni genere di scrittura e che su ogni parola spendevo ore e ore perché fosse sempre più efficace e precisa. Era un lavoro in cui non ero incoraggiato da nessuno e di cui davo conto solo a me stesso. Scrivevo soprattutto in cucina perché non avevo una camera nella quale isolarmi. Ma, nonostante tutto, riuscivo a concentrarmi e a scrivere quello che volevo. Mai ebbi una percezione più forte dell'importanza delle parole come in quel periodo di apprendistato della scrittura. Imparai a consultare il vocabolario come un vangelo. Non ne avevo uno e chiedevo a mio cugino di darmi in prestito il suo. Ma ossessionavo quelli che mi sembravano più "colti" perché mi spiegassero in che senso avevano usato le parole che avevo udito sulla loro bocca e che ancora non conoscevo. Quel lavorio( che andò perfezionandosi via via, e che poi si allargò attraverso lo studio di tante lingue straniere) durò quasi trent'anni. Cioè fino al momento in cui pubblicai il mio primo libro. Era la realizzazione di un sogno coltivato con tenacia e con passione. E oggi scrivere libri è l'attività più bella della mia vita. Scrivo soprattutto per me, si capisce, ma scrivo anche per dialogare con i bambini e i ragazzi. Le storie che invento, i personaggi cui do vita, sono altrettanti regali per chi sta affrontando la sua strada con le ansie, le paure e gli entusiasmi con cui io affrontai la mia quando avevo l'età dei miei lettori. E ne sono ripagato con una gratitudine unica.
Come scrivo concretamente i miei libri
I taccuini
Durante le settimane che precedono la stesura di un libro, io annoto su un taccuino una grande quantità di appunti. Prendo nota di situazioni, di episodi, di ambienti, di caratteristiche che voglio attribuire a questo o a quel personaggio. Le pagine del mio taccuino si riempiono rapidamente, e alla fine mi trovo ad avere tra le mani quasi un libro. Questo vuol dire che la mattina in cui mi siedo alla mia scrivania per cominciare a scrivere la mia storia, io ho davanti una sorta di scaletta e una miniera di itinerari e di situazioni da arricchire e da sviluppare. E tuttavia non è detto che io segua tutte le indicazioni che ho annotato. Mentre scrivo, posso prendere direzioni impensate e inventare scene e quadri cui non avevo pensato. Il bello della scrittura è proprio questo: anche lo scrittore si sorprende delle conclusioni cui perviene mentre scrive. La scaletta, il "piano" dell'opera mi serve, ma non mi lascio condizionare dai miei appunti. Per il mio viaggio mi riservo ogni libertà. Una cosa ho invece ben precisa in mente: e cioè il carattere dei protagonisti del libro che sto scrivendo. Le loro azioni, le loro parole devono essere coerenti con l'idea che di ciascuno di loro io mi sono fatto. Questo non vuol dire che devono essere schematici e rigidi. Nella vita si cambia a seconda delle persone che incontriamo, delle esperienze che facciamo, delle situazioni che viviamo. E questo, ovviamente ,io lo consento anche ai personaggi dei miei libri. Che dunque possono cambiare, anche se alcuni tratti devono restare fermi.
Le revisioni
In genere mi bastano una decina di giorni per scrivere i miei libri. Ma questa è solo la prima parte del lavoro. Quella più importante viene dopo. Il libro viene letto e riletto più volte per sostituire una parola, sopprimere una frase, eliminare un paragrafo o addirittura tagliare un capitolo. Quando il libro arriva nelle mani dei ragazzi, deve poter essere letto, se possibile, senza interruzioni. Deve essere in grado di "trascinarli" in un mondo altro senza farsi respingere. Non basta, pertanto, che i contenuti siano capaci di attrarre il lettore. Devono essere presentati e raccontati in un certo modo, con un certo stile e un certo linguaggio. Perché un libro piaccia, devono entrare in gioco tanti fattori. Entra in gioco anche "l'orecchio". Mi capita sovente di sostituire un termine con un altro, o di riscrivere una frase con un ordine diverso, perché ad una lettura ad alta voce mi accorgo che così "suona meglio". Dunque un consiglio per chi scrive può essere proprio quello di leggere ad alta voce quello che ha scritto. Ti accorgi subito se funziona oppure no. Io spesso leggo le mie storie ai miei alunni, e capisco subito cosa eventualmente non va. Quando sono soddisfatto del mio libro, lo stampo e lo mando all'editore. Se decide di pubblicarlo, il mio lavoro però non è finito. Io, infatti, faccio altre correzioni sulle bozze, ossia sui fogli sui quali viene riprodotto il testo prima di essere perfezionato definitivamente e consegnato alle macchine che lo stamperanno. E mi capita di fare delle modifiche anche a libro stampato. Per esempio, se prendete una copia della prima edizione delle Fatiche di Valentina, vedrete che in più punti è leggermente diversa dalla seconda edizione. Ma questo vale anche per gli altri miei libri. Insomma si direbbe che un libro non sia mai finito. Ed è giusto che sia così. In questo "mestiere" bisogna essere incontentabili. Scrivere è un lavoro che comporta grandi responsabilità e non bisogna ritenersi facilmente soddisfatti.