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I brevi articoli, e i racconti, che riproduco qui di seguito sono stati pubblicati su POPOTUS, giornale per bambini che esce come inserto del quotidiano Avvenire il giovedì e il sabato.

STORIE DI BAMBINI VENUTI DA LONTANO

Quando Anne è arrivata nella nostra scuola, è stata inserita subito nella mia classe. Anne è australiana, parla inglese e a me l'inglese piace molto. Perciò ogni tanto, con Anne, mi faccio delle lunghe chiacchierate nella sua lingua.
Dapprima i suoi compagni mi guardavano stupito e mi chiedevano scandalizzati. "Angelo, come parli?" Allora ho approfittato della presenza di Anne per insegnare ai bambini delle canzoncine e delle filastrocche inglesi.
E' stato come impadronirsi di un codice segreto, e adesso seguiamo i progressi di Anne, che sta imparando velocemente a imparare l'italiano.
"Angelo, may I have a piece of chalk, please?"
Certo che puoi avere il tuo pezzo di gesso, Anne.
E intanto penso a Nicola che l'anno scorso è arrivato dal Venezuela e a Cynthia fuggita con i suoi dal Perù, e con la quale ho dovuto, parlare a lungo in spagnolo per tranquillizzarla.
Un giorno Cynthia mi chiese: "Maestro, dicono che io sono una extracomunitaria. Che significa?"
Quando glielo spiegai, Cynthia alzò le spalle e disse:"Tutto qui?"
Già, tutto qui. E penso a quando avevo l'età dei miei alunni "extracomunitari". Penso ai loro disagi, alle loro paure, al loro coraggio. Li ebbi tutti anch'io, quando vissi nei boschi dell'Auvergne, in Francia, e quando imparai a conoscere il cuore e le periferie di Parigi. Allora feci amicizia con bambini che si chiamavano Pablo, Roger, Said, Denise, Eveline.
Qualche bambino francese mi prese in giro solo all'inizio. Ma io non ci feci molto caso. Se tra di loro avevano trovato posto spagnoli, algerini e vietnamiti, di sicuro ci sarebbe stato un posto anche per un bambino italiano. E così fu. Insieme esplorammo boschi e caverne, insieme passammo le notti a rabbrividire sotto le stelle. Ogni tanto pensavo al paese che avevo lasciato, alla campagna dov'ero cresciuto, al muschio che avevo colto per abbellire il presepe immenso di mia nonna. Mi piaceva avere ricordi, rivedere con la mente la mia casa, le vie che la circondavano e la folla che le riempiva nei giorni di festa. Ma ero anche contento di conoscere altri volti, altri luoghi, altri orizzonti. Perciò accolgo sempre volentieri nella mia classe i bambini che arrivano da lontano con la loro lingua e i loro ricordi.
Hanno una storia che nessuno potrà rubargli, così come nessuno ha potuto rubare a me la mia.

GLI ULTIMI DELLA CLASSE

C'è ancora l'ultimo della classe? Credo proprio di sì. E chi è? E' il bambino timido che non ha il coraggio di alzare la mano. E' quello che non ha i genitori in grado di aiutarlo a fare i compiti. E' quello che a scuola si annoia perché non si fa nulla, o poco, che lo interessi. E' il bambino preoccupato e ansioso perché magari a casa non tutto fila liscio, o per altre ragioni che lo riguardano.
A volte i maestri si lambiccano il cervello e cercano di capire perché il bambino non impara, è distratto, "rimane indietro". Un bambino così rischia di diventare un bel problema. A volte rischia, addirittura, di "sparire". Sta in classe, non è seduto all'ultimo banco perché i banchi sono disposti in cerchio, in gruppi, a ferro di cavallo e così via. E tuttavia finisce che nessuno gli fa più domande, perché si pensa che, tanto, non saprà mai rispondere.
Io credo che in ogni bambino si può entrare con la chiave giusta: basta trovarla. Ma bisogna farsi aiutare anche da lui. Ecco perché io parlo molto con i miei alunni. E arrivo a conoscerli così bene, che spesso i genitori mi dicono: "Lei dei nostri figli ne sa più di noi".
Quando si conosce bene un bambino, è difficile che diventi l'ultimo della classe. Ogni bambino ha delle ricchezze nascoste. E nessuno di noi è bravo in tutto. Io non capivo niente di matematica, ma presto mi sono "specializzato" a scrivere bene.
C'è chi disegna in modo divino e si racconta meravigliosamente con i colori invece che con le parole. Di intelligenze ce ne sono tante. Ogni bambino ha la sua e la scuola deve aiutarlo a scoprirla e a sfruttarla bene. I bambini che hanno difficoltà a imparare devono sempre essere una scommessa per i maestri e i professori. Non un peso da trascinarsi dietro.

UNA TELEFONATA DAL MARE

Primo giorno in colonia. I bambini hanno il permesso di telefonare a casa alle otto di sera, e Marco è il primo ad appostarsi davanti alla cabina alle otto meno un quarto.

- Sei capace di telefonare da solo? - gli chiede la maestra.
- Che domanda! Certo che è capace. Ha sette anni, lui. Non è mica nato ieri!

Marco entra nella cabina, infila la carta telefonica, preme i tasti giusti e aspetta che suo padre, o sua madre, alzi la cornetta.

- Ciao, papà.
- Ciao, Marco. Come è andato il viaggio?
- Bene.
- E in camera, dormi con i tuoi amici?
- Sì, siamo in sei e ci sono i letti a castello.Tu dormi sopra o sotto?
- Sotto.Hai già visto il mare?
- L'ho visto dal treno. Forse più tardi la maestra ci porta a fare una passeggiata sulla spiaggia.E' bello il mare sotto le stelle. Ti ricordi l'anno scorso quando siamo andati a santa Margherita Ligure?

Sì, Marco lo ricordava benissimo. Però allora c'erano suo padre e sua madre con lui…

- Dov'è la mamma?
- Lo sai che tua nonna ha bisogno di aiuto prima di coricarsi. Dovrebbe tornare tra poco.
- Salutamela quando torna.
- Non dubitare….Marco?
- Sì, papà?
- Dimmi la verità: ti senti triste?
- Solo un po'. Sei stato tu a decidere di partire, vero?

Insomma, era stato lui e non era stato lui. La maestra aveva detto che stare lontano da casa qualche giorno lo avrebbe aiutato a crescere. Marco, però, non aveva capito bene in che senso.
Comunque suo padre e sua madre erano stati d'accordo con la maestra e lui non aveva avuto il coraggio di dire che preferiva stare a casa, tra le sue cose e nella quiete della sua camera.

- Marco?
- Sì, papà?
- Non dici niente?
- Non ho più tempo. Ci sono tanti bambini che devono telefonare.
- Allora divertiti, mi raccomando.
- Va bene. Ciao, papà.
- Ciao, Marco. E hai dei bei sogni, eh?

Marco non era sicuro che avrebbe fatto dei bei sogni. Ad ogni modo, quando le luci si spensero nella sua camera, si alzò, aprì l'anta del suo armadietto e tirò fuori dallo zaino il suo coniglio di peluche mezzo spelacchiato. Poi si infilò tra le lenzuola, si strinse il coniglio al petto e mormorò a se stesso: Buona notte, Marco.

SIETE TIMIDI? NIENTE PAURA, C'E' BISOGNO DI VOI

Sono stato un bambino timido. Non mi piaceva alzare le mani e fare il "bullo", adoravo in silenzio una compagna di classe, mi capitava di diventare rosso e di tremare quando il maestro mi interrogava.
Ma non per questo mi sentivo un bambino malato che avesse bisogno di una pillola per guarire.Ero timido, ma ero anche un grande sognatore. E la mia vita interiore era infinitamente più ricca di quella dei miei compagni che invece di adoperare le parole si esprimevano con pugni e calci.
Oggi penso che sono diventato scrittore "anche" grazie a quella timidezza. Riflettevo più degli altri e vedevo più chiaro e più lontano dei prepotenti.
I timidi possono essere dei piacevoli compagni di strada. Non amano straparlare in pubblico, ma a tu per tu e nell'intimità di un dialogo, sanno manifestare tenerezza, calore, comprensione.
Davvero non sappiamo cosa farcene di loro?
Davvero in questo mondo bisogna saper sgomitare e urlare più forte degli altri. Sarebbe un bel guaio.Lo fanno già in tanti e ci assordano abbastanza.
I bambini timidi che ho sempre avuto in classe erano in genere i miei alunni migliori. Erano i più sensibili, i più attenti, i più capaci di ascoltare.
Poi la timidezza la perdevano, perché trovavano un adulto che sapeva ascoltarli a sua volta. Ma oggi sono pochi gli adulti capaci di ascoltare i bambini, perché il frastuono, gli impegni e la competizione li rendono distratti e indifferenti verso i più piccoli.
E infine: il timido, a volte, è uno che sta bene con se stesso e che non ama farsi trascinare nella baraonda e nella confusione. Non ha forse il diritto di essere com'è? Perché deve sentirsi inadatto a vivere in una società che sembra non conoscere più il valore del silenzio e della discrezione?
Timidi che leggete Popotus, ricordatevi che siete sani, sanissimi. Non siete voi ad aver bisogno di pillole. Sono gli altri ad aver bisogno di voi.

Incidenti e immobilità

3 maggio 2011

Da piccolo sono vissuto in un paesino che confinava con la campagna. Passavo quattro ore immobile a scuola e, appena uscito, tornavo a casa e mangiavo in fretta. Poi via di corsa nei prati con i miei compagni, a inseguirci, a fare la lotta, a fare la posta alle lucertole.

A volte salivamo sugli alberi per il gusto di vedere il mondo dall'alto o spenzolarci da un ramo più robusto degli altri. Camminavamo in fila indiana sui muretti a secco, costruivamo fionde per colpire i barattoli di latta allineati a molti metri di distanza.

Che bello, direte!

Sì, era proprio bello. Conoscevo tutto del mio corpo: la forza dei muscoli nelle braccia, l'agilità delle mie gambe, l'acutezza del mio sguardo, la sensibilità della mia pelle che rabbrividiva al contatto con la rugiada.

Ero bravo a fare capriole, a strisciare per terra, a sollevare pietre e a scavare buche.

Naturalmente facendo tutte queste cose, mi ferivo spesso: una volta si rompeva un'unghia, un'altra mi graffiavo un braccio. In certi casi sanguinavo, in altri tornavo a casa con un bernoccolo o lividi paurosi.

Prima di presentarmi da mia madre mi asciugavo le lacrime, mi davo una ripulita sommaria e una sciacquata all'acqua di una fontana. I rimproveri, ovviamente, non mancavano. Ma farsi male, purché non troppo, era considerato quasi normale. I bambini erano più liberi, mettevano alla prova le loro forze, diventavano più attenti ai gesti che compivano, perché ne sperimentavano le conseguenze.

I miei alunni, invece, sono sempre stati bambini di città. Quasi mai hanno occasione di fare capriole sull'erba, di imparare a muoversi in piena libertà.

Intorno a loro hanno spesso muri di casa e muri di scuola, muri di un corridoio e muri di un'aula.

E' per questo che li ho sempre portati in cortile tutti i giorni: con il sole e con il freddo. O nei parchi di Torino, in tutte le stagioni.

Non li ho mai persi di vista, ho controllato che non si mettessero in pericolo, ma sono stato sempre felice di vederli correre, saltare, prendersi, fuggire: proprio come facevo io da piccolo.

Avevo sempre con me una piccola cassetta di pronto soccorso: con cerotti, disinfettante, arnica, per medicare eventuali graffi, ferite, bernoccoli.

Ma all'aria aperta non sono mai accaduti incidenti gravi. Ci si fa più male nei luoghi chiusi. E comunque i graffi guariscono, un bernoccolo si sgonfia.

Meglio questi, tuttavia, che una eccessiva immobilità, che spegne la vita di un bambino, lo rende apatico e…lo fa ingrassare.

Ovunque ma sempre al centro

26 aprile 2011

Dove abitate, ragazzi? In una frazione di montagna? In un paesino di pianura? Nel quartiere di una città del nord? In uno di una città del sud? Al centro di una metropoli? Ai margini di una periferia?

E' importante sapere dove si trova una scuola, da quali strade o piazze è circondata, se c'è vita intorno ad essa o se invece c'è un mortorio.

La scuola non è un'isola. A me piace pensarla come il cuore pulsante di un paese o di un quartiere. Un luogo dove si incontrano tante storie, dove si coltivano tanti sogni, dove palpitano tanti desideri.

Si arriva la mattina condotti per mano da un nonno, o accompagnati in auto da una mamma affannata che ti dà un bacio, ti fa una carezza e ti raccomanda di essere bravo.

Poi si salutano i compagni, si cerca l'amica del cuore, ci si mette in fila dietro la maestra e si sale in classe. Si depositano gli zaini, si tirano fuori i quaderni, si confrontano i compiti, ci si racconta quello che si è fatto la sera prima, si programmano i giochi da fare durante l'intervallo.

Intanto i bidelli(scusate, gli operatori scolastici) chiudono i cancelli, i genitori si scambiano qualche opinione sui figli, sui maestri, magari sulla direttrice, e si avviano per tornare a casa, dopo aver dato un'ultima occhiata alle finestre dalle quali si rovesciano in strada voci, bisbigli, lo scoppio improvviso di una risata.

"E' mio figlio" dice forse una mamma a un'altra . "E' fatto così. E' il suo carattere. E il tuo?"

Poi le finestre vengono chiuse e in strada non arrivano più voci.

La scuola sembra rinchiudersi in se stessa avvolta da un'aria di mistero. Intorno ad essa, però, vive e si agita il quartiere che le ha consegnato ciò che ha di più prezioso: i suoi ragazzi e il suo futuro.

Sono stato, viaggiando, in centinaia di scuole. Ho visitato, curioso, decine di città, di paesi e di quartieri. Da Santa Cristina di Valgardena a Somma Vesuviana, da Fermo a Napoli, da Cividale del Friuli a Molfetta.

E ho capito quanto sia diverso uscire da scuola e trovarsi di fronte le colline o il mare, pianori di montagna o strade sporche, giardinetti curati o piazze in abbandono.

La scuola merita rispetto. Perciò almeno la zona che la circonda deve essere curata con diligenza e amore da chi governa la città e dalle persone che la abitano.

I bambini che camminano sui marciapiedi, che attraversano le strade per andare a scuola, guardandosi intorno, devono vedere cose belle, immagini che ispirano fiducia, non disgusto, timore o ribrezzo.

Quante volte ho ripulito parchi e giardini insieme ai miei alunni, sotto l'occhio distratto di passanti indifferenti!

Le grandi cose nascono dalle piccole. Gli adulti facciano la loro parte. I bambini sono pronti a fare la loro.

Dall'alto in basso

19 aprile 2011

Quand'ero piccolo, il mio maestro era sempre più alto di me. Anche quando si sedeva dietro la cattedra. Una vera cattedra di legno pesante, non una piccola scrivania. Il fatto è che la sedia e la cattedra erano posate su una pedana alta almeno venti centimetri, se non più. Perciò il maestro, anche da seduto, ci guardava dall'alto.

E si accorgeva di tutto: se graffiavi il piano del banco con una scheggia di pietra o un temperino; se giocavi col pennino rimestando l'inchiostro nel suo vasetto e sporcandoti le dita; se scambiavi le figurine dei calciatori col compagno al tuo fianco; se leggevi di nascosto un fumetto ; se piegavi per noia l'angolino di una pagina del quaderno facendo un'orecchietta; se ti distraevi a seguire una farfalla che passava e ripassava davanti alla finestra chiusa.

Il maestro notava tutto, ti fulminava con un'occhiata, ti rimproverava, e se insistevi, ti correggeva con un paio di bacchettate sulle mani.

Da bambino, tutti i grandi mi sembravano dei giganti. E i giganti ti intimidiscono e spaventano , in genere.

Me ne sono ricordato quando ho cominciato a fare il maestro. Nella mia classe non c'è mai stata la cattedra, naturalmente, ma una piccola scrivania. E io non riuscivo mai a stare seduto.

Spiegavo, leggevo, raccontavo stando in piedi, camminando nell'aula. Ma quando parlavo direttamente a un bambino, mi chinavo, posavo i gomiti sul banco o mi piegavo addirittura sui ginocchi, specie quando mi rivolgevo ai più piccoli. In questo modo, potevo guardarli negli occhi, sembravo della loro stessa altezza, ed essi si sentivano più portati a parlarmi.

Non per questo dimenticavano che io ero un adulto: il loro maestro, appunto. Anche se a qualcuno, a volte, scappava di chiamarmi "papà". Ma io li correggevo subito: "Tuo papà lo vedrai stasera a cena. E con lui parlerai d'altro, probabilmente".

Alcuni insegnanti inglesi, miei amici, mi dicono che è bene non dare troppa confidenza ai bambini a scuola, "perché non ne abusino".

Ma la confidenza tra chi insegna e chi impara è una buona cosa quando vuol dire fiducia e rispetto reciproco. Si impara più facilmente e più volentieri se l'adulto con il quale hai a che fare non è un giudice, ma uno che ama il suo lavoro e sa appassionarti alle cose che insegna.

Se è uno che le farfalle non te le fa guardare solo dalla finestra, ma ti accompagna in cortile perché ti diverta a rincorrerle e a tentare di acchiapparle.

Proprio come faceva lui da bambino.

I profughi in classe

12 aprile 2011

Non è la prima volta che dall'Africa arrivano dei profughi sulle nostre coste. I bambini osservano le immagini in televisione, sono attirati soprattutto dai piccoli avvolti nelle copertine, stretti fra le braccia delle madri.

Fissano occhi spalancati e sguardi smarriti. Anche il maestro, da casa, vede le stesse immagini, si perde negli stessi occhi e negli stessi sguardi.

E il giorno dopo ne parla a scuola, evocando con i suoi alunni quello che ha visto in televisione la sera prima: i corpi che si pigiano in poco spazio, le mani che salutano, i sorrisi stanchi.

Le mamme cedono con fiducia i piccoli ai soccorritori e tengono a freno le lacrime perché non è ancora ora di abbandonarsi al pianto. Bisogna prima posare i piedi sulla terra, dopo che il mare ti ha sballottato per giorni come un fuscello e ha minacciato più volte di inghiottirti nel suo seno immenso.

Durante tutto il viaggio, non devono avere mai smesso di pensare a come proteggere i piccoli in caso di naufragio. Di certo sono disposte a morire pur di assicurare la vita ai loro figli. Quanto più si è poveri, perseguitati, oppressi, tanto più si ama il futuro delle creature cui si è dato la vita. Sono i bambini che ti riscattano e danno un significato al tuo sacrificio.

Il maestro non parla di politica, che i bambini non capiscono. Parla di umanità, di sentimenti semplici, della paura e della speranza: di ciò che ti fa sentire vicino agli altri e ti spinge a dare una mano, ad aprire una porta, ad offrire una coperta o un pezzo di pane.

Queste cose i bambini le capiscono, il maestro lo sa. Anche loro hanno fame, hanno bisogno di protezione dal male, vogliono sentirsi amati, essere curati quando non stanno bene.

I bambini sono fertili di curiosità, fanno domande ed esigono risposte. E non ne pensano bene dei grandi che li ignorano, o che rispondono: "Sono cose che non puoi capire".

Ma si sbagliano. I bambini capiscono più col cuore che con la testa. E col cuore si vedono cose che con la testa non si scorgono. Nel cuore non c'è posto per pregiudizi, disprezzo, egoismi.

Il maestro ne è convinto, ci spera. E' per questo che sente l'importanza del suo lavoro, ed entra in classe con il desiderio di essere guardato dai suoi alunni come un uomo affidabile, onesto, pieno di comprensione per tutti.

Perciò con lui entrano nell'aula anche i profughi: i figli, le madri, i mariti, quasi tutti giovani. Gli anziani restano a casa e forse non vedranno mai più chi un giorno è partito per un destino ignoto.

Che male c'è a copiare

5 aprile 2011

Daniela mi si avvicina e mi dice: "Angelo, Luigi mi ha copiato"."Nei sei sicura?"

"Sì".

"In un certo senso dovresti essere orgogliosa".

"Perché?"

"Perché vuol dire che si è fidato di quello che hai scritto. Che ti considera davvero brava, insomma".

Daniela mi guarda perplessa.

"Se ha copiato, vuol dire che non ha capito", aggiungo. "Forse non sono stato abbastanza bravo a spiegare. Perché non ci provi tu?"

"Io?"

"Ho notato che i bambini sono capaci di spiegare le cose che sanno meglio dei maestri. Provaci, vedrai che con Luigi ci riesci".

Daniela torna al suo posto confusa.

E' nuova nella classe, è arrivata da poco, come Luigi. E ancora non c'è stato tempo di dirle e dimostrarle che in una scuola non troppo competitiva, non ci si vergogna di dire ad alta voce: "Non ho capito" e a chiedere un supplemento di spiegazioni.

La mia collega, che insegna matematica, durante le prove di verifica ricorda comunque ai bambini: "Non copiate, altrimenti non ci rendiamo conto se avete capito oppure no. Se non copiate, ci sarà più facile aiutarvi".

Ma ai bambini non piace fare brutta figura, in nessun caso.

E io ripenso a quando avevo l'età di Daniela, o poco più. Non ho mai copiato, lo giuro. Non perché fossi bravo, ma perché ero timido e orgoglioso.

La timidezza mi impediva di sbirciare sul foglio del compagno. L'orgoglio mi spingeva ad impuntarmi per cavarmela da solo. Del resto, ragionavo, se copio un problema che non ho capito e poi il maestro mi chiama alla lavagna e non so spiegarlo, che figura ci faccio?

Così, a volte, andavo a chiedere chiarimenti a un compagno più bravo che non fosse troppo vanitoso. Oppure, testardo, aggredivo con rabbia il problema e cercavo di risolverlo da solo, provando e riprovando. In casa nessuno avrebbe potuto aiutarmi, lo sapevo.

Poi, andando avanti, sono diventato sempre più sicuro, soprattutto con i temi. Mi piaceva scrivere e provavo un gusto matto a coprire di pensieri e ragionamenti fogli su fogli. Non solo quelli di scuola, ma anche quelli privati sui quali mi esercitavo a inventare dialoghi e storie.

Perciò alcuni dei miei compagni mi chiedevano un "aiutino" e mi compensavano con dei libri un po' squinternati, ma che io non potevo acquistare.

Oggi però mi rendo conto che anch'io, in realtà, copiavo. Leggevo le pagine dei libri che amavo e cercavo di imitarle. A volte riportavo nei miei testi frasi che mi sembravano incantevoli e che avevo imparato a memoria. Per fortuna la prof non se ne accorgeva. O forse sì, ma era così intelligente che non me lo faceva notare. Doveva essere una gioia, per lei, vedere che le parole di uno scrittore venivano fatte proprie da un ragazzino solo per amore.

Buongiorno, maestro

5 aprile 2011

Buongiorno, maestro". "Buongiorno, bambini". "A domani, Angelo". "A domani ragazzi".Per quasi quarant'anni ci siamo salutati così, io e i miei alunni. Loro erano contenti di venire a scuola. Io sfidavo me stesso ad essere sempre creativo, curioso e un po' stravagante, per sorprenderli con un racconto, un pensiero, una notizia.

Però mi piaceva molto anche ascoltarli, per capire come ragionavano, che cosa era davvero importante per loro, quali progetti cominciavano a formarsi nelle teste, quali sogni cominciavano a coltivare nel cuore. Prima a sei, poi a sette, a otto, a nove, infine a dieci anni, quando ci salutavamo con un po' di commozione e con la promessa di risentirci e di rivederci.

I compiti, le interrogazioni, i giochi, i rimproveri, gli incoraggiamenti, le poesie da imparare a memoria, le ricerche, gli intervalli, i bisticci, le amicizie, le antipatie, le invidie, i telefonini da lasciare a casa, le gite, i diari, i quadernoni, in libri, le storie, le bugie, le promesse…

Nella mia testa si affollano i ricordi, alcune memorie scompaiono e riappaiono, alcuni visi di bambini ritornano e svaniscono.

Perciò quando da Popotus mi hanno chiesto se me la sentivo di avere un appuntamento settimanale con i lettori del giornale, per parlare di scuola, ho risposto subito di sì. Non per fare il maestro, ma per non dimenticare di esserlo stato.

Del resto, chi ha insegnato per tanti anni, resta maestro anche quando non lo fa più in un'aula scolastica. Perciò ancora oggi, quando posso, torno a scuola, leggo storie, ascolto e osservo i nuovi alunni che colorano le classi delle mie colleghe, cerco di capire come cambiano i bambini. Raccolgono ancora figurine? Fanno i mercatini con i loro vecchi giochi? Si scambiano le merende? Si incantano ancora a guardare gli uccelli che si posano sui rami degli alberi in cortile o sulle grondaie dei palazzi? Si invitano ai compleanni? Sono attesi dai loro cagnolini al momento dell'uscita? Sono di più o di meno quelli che frequentano il prescuola? Cosa fanno con i loro computer? Li considerano più importanti di una corsa in bici?

Parlerò di queste e di altre cose, alla buona, come viene, in questo angolino che Popotus mette a mia disposizione e vostra. Già, perché chi vorrà scrivermi e dirmi come la pensa, se è d'accordo o non è d'accordo con me, potrà farlo. Leggerò le lettere che mi arrivano, se arrivano, e risponderò come facevo alle domande ora timide, ora indiscrete, che mi rivolgevano i miei alunni.